Delfina amava profondamente il grande bosco che circondava la casa di suo padre a Belgioioso. L’ombra riposante e lo stormire delle foglie le tenevano compagnia nelle lunghe giornate estive. Era affascinata dai tronchi nodosi, dalle calde cortecce porose, dall’intrico dei rami con la loro livrea lussureggiante. Ma anche d’inverno i grandi alberi le davano gioia. Le piacevano i ricami che la neve arabescava sugli intrecci stilizzati dei rami nudi, scuri contro il cielo azzurro cupo dei freddi crepuscoli.
Un caldo pomeriggio di giugno, Delfina si fermò a osservare il grande platano che sorgeva al limitare del bosco. Fu incantata dal portamento maestoso della pianta: era un esemplare molto antico; nei suoi due o tre secoli di vita il tronco si era accresciuto notevolmente e innumerevoli rami contorti si allungavano a toccare le nuvole più basse. La larga chioma a cupola creava una fresca ombra amica.
Delfina si sedette, appoggiandosi al tronco imponente; con la testa piegata all’indietro, si smarriva nell’ampia volta verde. Le grandi foglie palmate si muovevano alla brezza e sembravano mormorare una dolce cantilena. Per pochi attimi la fanciulla fu catturata dalla malia dell’albero; la testa ciondolava, gli occhi lentamente si chiudevano… Finché sentì uno strappo: alcuni fili dorati della sua capigliatura erano rimasti intrappolati nella corteccia dell’albero. Subito Delfina si volse a guardare e, tra le sottili lamine gialle e grigie in cui si sfaldava la scorza dell’albero, vide un grosso chiodo arrugginito. Il gambo era saldamente piantato nel tronco; solo la rotonda capocchia sporgeva dal fusto secolare e a essa erano avvolti alcuni dei suoi lunghi capelli.
Tentando di estrarre il chiodo, all’improvviso sentì uno scatto e una porticina si aprì nel tronco dell’albero. La curiosità la spinse a guardare dentro lo scuro pertugio: un piccolo atrio buio era stato ricavato alla base dell’albero e da esso si dipartiva una scala lunghissima attorcigliata a spirale, i cui gradini sembravano senza fine nell’oscurità profonda che li avvolgeva. Lasciando da parte ogni timore, la fanciulla decise d’entrare. Ma appena varcata la soglia, silenziosamente così come si era aperto, l’usciolo si richiuse alle sue spalle.
Di colpo Delfina si ritrovò al buio. Cercando di vincere il terrore che si stava impadronendo di lei, esplorò con le mani la ruvida parete di legno alla ricerca di qualcosa che le permettesse di localizzare la porta. Ma questa sembrava svanita; era come se non fosse mai esistita, come se le fibre legnose che l’avevano costituita si fossero sciolte e poi amalgamate con quelle del tronco in una ritrovata unità che non permetteva più di distinguerle.
Il suo cuore cominciò a battere impazzito: era prigioniera in quella tomba vegetale, senza alcuna via d’uscita. Nel silenzio sordo e irreale che la circondava, sentiva strani fruscii e gorgoglii impercettibili provenire dal legno. Era la grande pianta che viveva e pulsava intorno a lei: linfe zuccherine scorrevano imperturbabili verso le radici, incrociandosi nel loro cammino con le limpide soluzioni saline che salivano incessanti verso l’alto.
Quasi stordita dall’aria calda e umida, pregna di aromi aspri e speziati, Delfina raggiunse la scala e, un gradino dopo l’altro, arrivò in cima. Si ritrovò in una piccola stanza illuminata da un unico raggio di sole che pioveva da un finestrone incassato nel soffitto. Poche povere cose arredavano il locale: una poltrona a dondolo, un tavolo tarlato e una sedia.
Si rese subito conto che non esistevano vie di fuga e anche l’unico contatto con l’esterno, il vetro del lucernario, non poteva essere aperto. Attraverso quell’occhio trasparente, la fanciulla riusciva a scorgere solo le ultime diramazioni della pianta che, essendo più rade e delicate, lasciavano intravedere larghi spazi di cielo; le foglie tremolavano sui lunghi piccioli, mentre i frutti globosi che penzolavano all’estremità dei rami si urtavano in muti rintocchi cadenzati dalla brezza.
Sconsolata si sedette sulla poltrona, lasciandosi cullare dal movimento altalenante. Per caso il suo sguardo si posò sul tavolo e fu così che si accorse di un minuscolo essere che vi stava appollaiato sopra. Indossava una lunga e strana tunica dal colore indefinibile, che si confondeva con la pelle rugosa e accartocciata, del viso e delle mani.
“Benvenuta nella tua nuova casa!” sogghignò la strana creatura, emettendo suoni brevi e smorzati che ricordavano lo scricchiolio delle foglie secche.
“Non credo di conoscerti” esclamò indignata Delfina.
“Sono Alberico, il signore di questo bosco. E da questo momento tu sei mia ospite o, se preferisci, mia prigioniera… Hi, hi, hi… ”
“Forse tu ignori che sono la figlia di Erberto, il proprietario di queste terre!” si ribellò la fanciulla.
“E’ qui che ti sbagli! Io regnavo in questo bosco secoli e secoli prima che il tuo popolo si trasferisse qui. Tu non puoi neanche immaginare quanto fossero belli i boschi e le foreste qui attorno… Poi arrivaste voi… Un albero dopo l’altro, tutto tagliato, abbattuto, bruciato! Non puoi capire la mia sofferenza, il mio dolore, vero? Comunque sia, adesso sei qui e quelli della tua gente proveranno finalmente ciò che ho patito io.” Con un agile balzo Alberico scese dal tavolo, salutò con un cenno Delfina e sparì nell’oscurità della scala.
Era ormai sera e attraverso il lucernario, tra la massa scura del fogliame, appariva una striscia di cielo verde cupo che già sfumava nel blu; solo una stella luminosa faceva capolino tra i rami nodosi. Dopo aver sbocconcellato un pezzo di pane raffermo, la povera cena che le aveva lasciato Alberico, si raggomitolò sulla poltrona e si abbandonò al suo lento dondolio finché il sonno la colse.
Molti lunghi giorni trascorsero, tutti uguali nella loro monotona tristezza. Ogni pomeriggio Alberico si recava a trovare la sua prigioniera. Appariva all’improvviso, le lasciava del cibo e, rapido così com’era arrivato, scompariva. Ogni volta Delfina cercava d’impietosire il vecchio, ma ogni tentativo falliva miseramente: il cuore di lui era ancora più legnoso della ruvida scorza che ne rivestiva il corpo.
Poco per volta la fanciulla cominciò a deperire. Chiusa in se stessa, in un torpore innaturale, andava assomigliando a un bel fiore reciso lasciato senz’acqua. Non si accorgeva neanche più della presenza di Alberico che, infastidito da quello stato di estrema prostrazione, si arrovellava alla ricerca di un rimedio. Infine gli venne un’idea…
Fu così che in una notte di luna piena il misterioso usciolo ai piedi del platano si aprì. Ne uscì una bellissima fanciulla che seguiva con sguardo trasognato un piccolo vecchio grinzoso. Costui imbracciava un’arpa, da cui traeva una magica armonia di suoni.
Attratta dal fascino sottile di quella musica, una miriade di piccoli esseri fatati prese a seguirli. Era tutto un brillare di minuscole luci pulsanti, simili a fiammelle mosse dal vento. Anche le piccole creature della notte uscivano dai loro bui nascondigli per spiare con occhi fosforescenti quello strano corteo che sfilava tra gli alberi secolari.
Poche ore prima dell’alba, suonando un magico richiamo, Alberico riportò Delfina nella prigione all’interno del platano.
Ogni notte, tranne quelle di luna nuova in cui il bosco era troppo buio e insidioso, il vecchio apriva la porticina dell’albero e lasciava che la fanciulla vagasse libera. Non temeva una sua fuga, perché con la magia dell’arpa egli era in grado di richiamarla a sé, ovunque si trovasse. Delfina correva felice per i sentieri del bosco illuminati dalla luna. Aspirava a fondo i profumi della foresta che gli umori stillanti della rugiada rendevano ancora più vivi: finalmente poteva tornare a sentire l’umido odore del terriccio, l’aroma balsamico delle resine che colavano lente lungo le cortecce screpolate, l’effluvio delle piante del sottobosco. In quei brevi momenti Delfina riacquistava un po’ di quell’energia che la reclusione le aveva tolto. Comunque non era più la fanciulla rosea e dorata che, ignara, era entrata nel platano. Tutto in lei era diventato chiaro e diafano; la sua pallida figura emanava una luce argentea, come se le poche energie che la tenevano in vita le avesse catturate dall’astro della notte.
Nel frattempo a Belgioioso regnavano il dolore e la disperazione: fin da quel lontano pomeriggio di giugno nessuno aveva avuto più notizie di Delfina e ogni tentativo di ritrovarla era stato infruttuoso. Si era già ai primi di settembre; la tristezza malinconica di questo mese, che con le sue nebbie dense e stillanti rivelava la natura effimera dell’estate, avviluppava il cuore di Erberto e di sua moglie. Ella trascorreva lunghe ore alla finestra che dava sul bosco, sperando di veder comparire la figlia da uno dei tanti sentieri; scrutava tra i veli caliginosi, ma questi fluttuavano ostinati in prossimità del suolo, lasciando libere solo le chiome degli alberi. Talvolta la nebbia le giocava brutti scherzi: fissando a lungo quel biancore, aveva l’impressione che la bruma si scomponesse in una miriade di frammenti chiari e brillanti che le davano il capogiro e in quei momenti le sembrava di vedere un’ombra sottile che appariva e scompariva tra gli alberi. Ma non era mai Delfina…
Un pomeriggio di fine estate giunse a Belgioioso un giovane cavaliere errante. Elianto, così si chiamava, non appena fu informato della disgrazia che aveva colpito gli abitanti della casa, decise di mettersi alla ricerca della fanciulla.
All’imbrunire, prima di andare a coricarsi, il giovane scese in giardino, attirato dalla pace silenziosa e raccolta che permeava quel luogo. Passeggiando per gli ampi sentieri, sentiva il profumo delle erbe odorose e il dolce respiro dei fiori di caprifoglio, mescolato alle ultime esalazioni delle rose di macchia. Elianto lasciava che i suoi occhi si abituassero al buio. Ad un tratto la luna, prima nascosta dalle nuvole, rischiarò il giardino e un’infinità di nuove sfumature nacquero come per magia: molti colori erano svaniti, l’azzurro diventava bianco, il bianco e il grigio sembravano quasi fluorescenti e tutte le tonalità d’argento erano esaltate dalla chiara luce lunare.
Attratto da quel magico incanto, egli s’incamminò lungo un sentiero finché giunse al limitare del bosco. Elianto decise di proseguire tra gli alberi: gli era sembrato di udire una strana melodia e voleva capire da dove provenisse. Ma più s’inoltrava nel bosco e più si sentiva disorientato; quelle note d’arpa fluttuavano ovunque, trasportate dal vento.
Ad un certo momento iniziò a salire una leggera foschia. Il bosco stava assumendo un aspetto irreale: soffici veli inconsistenti ondeggiavano tra gli alberi, avvolgendosi e svolgendosi intorno ai tronchi e ai rami come sciarpe di tulle stese ad asciugare; dai ciuffi di felce prendevano forma lente spire di vapore, che si snodavano flessuose simili a serpentelli argentati. Elianto non sapeva più che direzione prendere per districarsi da quel groviglio di sentieri. Il chiarore della luna filtrava attraverso il fogliame, creando ingannevoli giochi di luce che lo confondevano quasi come i bianchi fantasmi nati dalla nebbia. Era tutto un intersecarsi di viottoli, alcuni senza uscita, che formavano un tragitto bizzarro e inestricabile.
Finalmente, dopo molti giri tortuosi, il giovane giunse in un’ampia radura. Si arrestò immediatamente, riparandosi dietro un albero: una fanciulla dai lunghissimi capelli color della luna stava danzando al centro del prato, tenendo stretto a sé un enorme mazzo di fiori. Ella ballava leggera, percorrendo un cerchio immaginario, e ad ogni passo di danza lasciava cadere un fiore: pallide corolle d’esperide e lievi infiorescenze d’aquilegia rosata andavano mescolandosi a timidi non-ti scordar-di- me bianchi e azzurri e a delicate ombrelle di mirride odorosa… Elianto seguiva affascinato i volteggi di quella figura evanescente…
“Bella figlia della Luna, chi sei mai? – mormorava. – Deliziosa figlia della Luna, che voli sul vento, lasciandoti trasportare dagli echi delle ore… Malinconica figlia della Luna, dimmi chi sei!”
“Tu la chiami figlia della Luna e neanche immagini chi ella sia… ” Quelle parole inaspettate fecero sobbalzare il giovane che, dopo un attimo di smarrimento, scorse un folletto dei boschi che si stava dondolando sul lembo frangiato d’una foglia di felce. “Già da molto tempo conosco la pallida fanciulla che ti ha incantato. E’ l’amica delle nostre notti argentate e la sua delicata presenza ci rende felici… finché i fantasmi dell’alba non vengono a chiamarla e allora lei, povera Delfina, deve andarsene!”
“Come l’hai chiamata? Ma allora lei è… ” gridò Elianto, che fece per correre dalla fanciulla.
“Fermati! Non vedi che così la spaventi? – lo rimproverò il folletto. – Ella è sotto l’incantesimo di Alberico, che la tiene prigioniera”. E gli raccontò tutta la storia della bella Delfina, rinchiusa nel grande platano a causa del rancore dell’antico signore della foresta.
“Forse un modo c’è per salvarla… Vieni con me, presto, perché tra un po’ Alberico suonerà l’arpa!” Con queste parole il folletto condusse il giovane in un piccolo prato poco distante. Un’infinità di minuscole pratoline si apriva alla luce della luna; come tanti piccoli occhi timidi schiudevano le iridi dorate, sbattendo le palpebre bianche frangiate di rosa. In breve tempo raccolsero parecchie margherite, che il folletto intrecciò abilmente a formare una collana che diede ad Elianto.
” Corri alla radura e infilala al collo di Delfina… vedrai che l’incantesimo svanirà!”
Con il cuore che galoppava, il giovane raggiunse il piccolo spiazzo in mezzo agli alberi. Delfina era ancora lì, immobile tra i fiori, e si guardava attorno smarrita come se qualcosa l’avesse destata all’improvviso da un sonno profondo. Elianto la prese per mano, come se fosse una bambina. Non si stancava di guardarla e di mormorare il suo nome. “Delfina… Delfina…” faceva eco il vento.
Ad un tratto una melodia d’arpa si propagò nell’aria. Elianto vide la fanciulla trasalire e il suo viso farsi sempre più pallido, quasi divorato dagli occhi sempre più profondi e tenebrosi: chiusa in un mondo inaccessibile, ella percepiva soltanto il richiamo di quelle note. Improvvisamente si scostò da lui e, rigida e determinata cominciò ad avviarsi tra gli alberi. Solo in quel momento il giovane si ricordò della collana di margherite…
Fuori di sé dalla disperazione, si buttò all’inseguimento di Delfina. Ma nonostante tenesse un’andatura sostenuta, non riusciva in alcun modo a raggiungerla: provò ad accelerare e poi a correre, ma la fanciulla era sempre un passo avanti a lui. Poteva vederne le spalle sottili e il manto lucido dei capelli e sentire il respiro affrettato di lei e il fruscio del lungo abito bianco. A tratti sembrava svanire e allora il giovane allungava il passo, finché non tornava a vedere la scia luminosa dei veli che l’avvolgevano.
Finalmente ella sembrò rallentare. Erano giunti di fronte ad un platano secolare, da cui proveniva il suono malioso dell’arpa. Una porticina si stava aprendo lentamente alla base del tronco… Con un ultimo sforzo disperato, Elianto lanciò la collana di fiori sul capo di Delfina.
Ella rimase immobile sulla soglia dell’albero, come se fosse incerta se proseguire o tornare indietro. Poi pian piano si voltò e vide il giovane cavaliere che le sorrideva.
“Chi sei?” mormorò ancora confusa.
“Mi chiamo Elianto” disse e cominciò a spiegarle come fosse riuscito a salvarla. Mentre erano così intenti a parlare, un grido terribile lacerò l’aria e l’arpa smise di suonare. Spaventata, Delfina si strinse al giovane, temendo la vendetta di Alberico. Ma non accadde nulla; videro solo che l’usciolo si richiudeva silenziosamente, per non riaprirsi più.
Ormai l’oscurità della notte si stava stemperando nel chiarore lattiginoso del nuovo giorno.
“Presto, corriamo ad annunciare il tuo ritorno!” disse Elianto, prendendola per mano. E insieme s’incamminarono verso la grande casa che si stava svegliando.
Un caldo pomeriggio di giugno, Delfina si fermò a osservare il grande platano che sorgeva al limitare del bosco. Fu incantata dal portamento maestoso della pianta: era un esemplare molto antico; nei suoi due o tre secoli di vita il tronco si era accresciuto notevolmente e innumerevoli rami contorti si allungavano a toccare le nuvole più basse. La larga chioma a cupola creava una fresca ombra amica.
Delfina si sedette, appoggiandosi al tronco imponente; con la testa piegata all’indietro, si smarriva nell’ampia volta verde. Le grandi foglie palmate si muovevano alla brezza e sembravano mormorare una dolce cantilena. Per pochi attimi la fanciulla fu catturata dalla malia dell’albero; la testa ciondolava, gli occhi lentamente si chiudevano… Finché sentì uno strappo: alcuni fili dorati della sua capigliatura erano rimasti intrappolati nella corteccia dell’albero. Subito Delfina si volse a guardare e, tra le sottili lamine gialle e grigie in cui si sfaldava la scorza dell’albero, vide un grosso chiodo arrugginito. Il gambo era saldamente piantato nel tronco; solo la rotonda capocchia sporgeva dal fusto secolare e a essa erano avvolti alcuni dei suoi lunghi capelli.
Tentando di estrarre il chiodo, all’improvviso sentì uno scatto e una porticina si aprì nel tronco dell’albero. La curiosità la spinse a guardare dentro lo scuro pertugio: un piccolo atrio buio era stato ricavato alla base dell’albero e da esso si dipartiva una scala lunghissima attorcigliata a spirale, i cui gradini sembravano senza fine nell’oscurità profonda che li avvolgeva. Lasciando da parte ogni timore, la fanciulla decise d’entrare. Ma appena varcata la soglia, silenziosamente così come si era aperto, l’usciolo si richiuse alle sue spalle.
Di colpo Delfina si ritrovò al buio. Cercando di vincere il terrore che si stava impadronendo di lei, esplorò con le mani la ruvida parete di legno alla ricerca di qualcosa che le permettesse di localizzare la porta. Ma questa sembrava svanita; era come se non fosse mai esistita, come se le fibre legnose che l’avevano costituita si fossero sciolte e poi amalgamate con quelle del tronco in una ritrovata unità che non permetteva più di distinguerle.
Il suo cuore cominciò a battere impazzito: era prigioniera in quella tomba vegetale, senza alcuna via d’uscita. Nel silenzio sordo e irreale che la circondava, sentiva strani fruscii e gorgoglii impercettibili provenire dal legno. Era la grande pianta che viveva e pulsava intorno a lei: linfe zuccherine scorrevano imperturbabili verso le radici, incrociandosi nel loro cammino con le limpide soluzioni saline che salivano incessanti verso l’alto.
Quasi stordita dall’aria calda e umida, pregna di aromi aspri e speziati, Delfina raggiunse la scala e, un gradino dopo l’altro, arrivò in cima. Si ritrovò in una piccola stanza illuminata da un unico raggio di sole che pioveva da un finestrone incassato nel soffitto. Poche povere cose arredavano il locale: una poltrona a dondolo, un tavolo tarlato e una sedia.
Si rese subito conto che non esistevano vie di fuga e anche l’unico contatto con l’esterno, il vetro del lucernario, non poteva essere aperto. Attraverso quell’occhio trasparente, la fanciulla riusciva a scorgere solo le ultime diramazioni della pianta che, essendo più rade e delicate, lasciavano intravedere larghi spazi di cielo; le foglie tremolavano sui lunghi piccioli, mentre i frutti globosi che penzolavano all’estremità dei rami si urtavano in muti rintocchi cadenzati dalla brezza.
Sconsolata si sedette sulla poltrona, lasciandosi cullare dal movimento altalenante. Per caso il suo sguardo si posò sul tavolo e fu così che si accorse di un minuscolo essere che vi stava appollaiato sopra. Indossava una lunga e strana tunica dal colore indefinibile, che si confondeva con la pelle rugosa e accartocciata, del viso e delle mani.
“Benvenuta nella tua nuova casa!” sogghignò la strana creatura, emettendo suoni brevi e smorzati che ricordavano lo scricchiolio delle foglie secche.
“Non credo di conoscerti” esclamò indignata Delfina.
“Sono Alberico, il signore di questo bosco. E da questo momento tu sei mia ospite o, se preferisci, mia prigioniera… Hi, hi, hi… ”
“Forse tu ignori che sono la figlia di Erberto, il proprietario di queste terre!” si ribellò la fanciulla.
“E’ qui che ti sbagli! Io regnavo in questo bosco secoli e secoli prima che il tuo popolo si trasferisse qui. Tu non puoi neanche immaginare quanto fossero belli i boschi e le foreste qui attorno… Poi arrivaste voi… Un albero dopo l’altro, tutto tagliato, abbattuto, bruciato! Non puoi capire la mia sofferenza, il mio dolore, vero? Comunque sia, adesso sei qui e quelli della tua gente proveranno finalmente ciò che ho patito io.” Con un agile balzo Alberico scese dal tavolo, salutò con un cenno Delfina e sparì nell’oscurità della scala.
Era ormai sera e attraverso il lucernario, tra la massa scura del fogliame, appariva una striscia di cielo verde cupo che già sfumava nel blu; solo una stella luminosa faceva capolino tra i rami nodosi. Dopo aver sbocconcellato un pezzo di pane raffermo, la povera cena che le aveva lasciato Alberico, si raggomitolò sulla poltrona e si abbandonò al suo lento dondolio finché il sonno la colse.
Molti lunghi giorni trascorsero, tutti uguali nella loro monotona tristezza. Ogni pomeriggio Alberico si recava a trovare la sua prigioniera. Appariva all’improvviso, le lasciava del cibo e, rapido così com’era arrivato, scompariva. Ogni volta Delfina cercava d’impietosire il vecchio, ma ogni tentativo falliva miseramente: il cuore di lui era ancora più legnoso della ruvida scorza che ne rivestiva il corpo.
Poco per volta la fanciulla cominciò a deperire. Chiusa in se stessa, in un torpore innaturale, andava assomigliando a un bel fiore reciso lasciato senz’acqua. Non si accorgeva neanche più della presenza di Alberico che, infastidito da quello stato di estrema prostrazione, si arrovellava alla ricerca di un rimedio. Infine gli venne un’idea…
Fu così che in una notte di luna piena il misterioso usciolo ai piedi del platano si aprì. Ne uscì una bellissima fanciulla che seguiva con sguardo trasognato un piccolo vecchio grinzoso. Costui imbracciava un’arpa, da cui traeva una magica armonia di suoni.
Attratta dal fascino sottile di quella musica, una miriade di piccoli esseri fatati prese a seguirli. Era tutto un brillare di minuscole luci pulsanti, simili a fiammelle mosse dal vento. Anche le piccole creature della notte uscivano dai loro bui nascondigli per spiare con occhi fosforescenti quello strano corteo che sfilava tra gli alberi secolari.
Poche ore prima dell’alba, suonando un magico richiamo, Alberico riportò Delfina nella prigione all’interno del platano.
Ogni notte, tranne quelle di luna nuova in cui il bosco era troppo buio e insidioso, il vecchio apriva la porticina dell’albero e lasciava che la fanciulla vagasse libera. Non temeva una sua fuga, perché con la magia dell’arpa egli era in grado di richiamarla a sé, ovunque si trovasse. Delfina correva felice per i sentieri del bosco illuminati dalla luna. Aspirava a fondo i profumi della foresta che gli umori stillanti della rugiada rendevano ancora più vivi: finalmente poteva tornare a sentire l’umido odore del terriccio, l’aroma balsamico delle resine che colavano lente lungo le cortecce screpolate, l’effluvio delle piante del sottobosco. In quei brevi momenti Delfina riacquistava un po’ di quell’energia che la reclusione le aveva tolto. Comunque non era più la fanciulla rosea e dorata che, ignara, era entrata nel platano. Tutto in lei era diventato chiaro e diafano; la sua pallida figura emanava una luce argentea, come se le poche energie che la tenevano in vita le avesse catturate dall’astro della notte.
Nel frattempo a Belgioioso regnavano il dolore e la disperazione: fin da quel lontano pomeriggio di giugno nessuno aveva avuto più notizie di Delfina e ogni tentativo di ritrovarla era stato infruttuoso. Si era già ai primi di settembre; la tristezza malinconica di questo mese, che con le sue nebbie dense e stillanti rivelava la natura effimera dell’estate, avviluppava il cuore di Erberto e di sua moglie. Ella trascorreva lunghe ore alla finestra che dava sul bosco, sperando di veder comparire la figlia da uno dei tanti sentieri; scrutava tra i veli caliginosi, ma questi fluttuavano ostinati in prossimità del suolo, lasciando libere solo le chiome degli alberi. Talvolta la nebbia le giocava brutti scherzi: fissando a lungo quel biancore, aveva l’impressione che la bruma si scomponesse in una miriade di frammenti chiari e brillanti che le davano il capogiro e in quei momenti le sembrava di vedere un’ombra sottile che appariva e scompariva tra gli alberi. Ma non era mai Delfina…
Un pomeriggio di fine estate giunse a Belgioioso un giovane cavaliere errante. Elianto, così si chiamava, non appena fu informato della disgrazia che aveva colpito gli abitanti della casa, decise di mettersi alla ricerca della fanciulla.
All’imbrunire, prima di andare a coricarsi, il giovane scese in giardino, attirato dalla pace silenziosa e raccolta che permeava quel luogo. Passeggiando per gli ampi sentieri, sentiva il profumo delle erbe odorose e il dolce respiro dei fiori di caprifoglio, mescolato alle ultime esalazioni delle rose di macchia. Elianto lasciava che i suoi occhi si abituassero al buio. Ad un tratto la luna, prima nascosta dalle nuvole, rischiarò il giardino e un’infinità di nuove sfumature nacquero come per magia: molti colori erano svaniti, l’azzurro diventava bianco, il bianco e il grigio sembravano quasi fluorescenti e tutte le tonalità d’argento erano esaltate dalla chiara luce lunare.
Attratto da quel magico incanto, egli s’incamminò lungo un sentiero finché giunse al limitare del bosco. Elianto decise di proseguire tra gli alberi: gli era sembrato di udire una strana melodia e voleva capire da dove provenisse. Ma più s’inoltrava nel bosco e più si sentiva disorientato; quelle note d’arpa fluttuavano ovunque, trasportate dal vento.
Ad un certo momento iniziò a salire una leggera foschia. Il bosco stava assumendo un aspetto irreale: soffici veli inconsistenti ondeggiavano tra gli alberi, avvolgendosi e svolgendosi intorno ai tronchi e ai rami come sciarpe di tulle stese ad asciugare; dai ciuffi di felce prendevano forma lente spire di vapore, che si snodavano flessuose simili a serpentelli argentati. Elianto non sapeva più che direzione prendere per districarsi da quel groviglio di sentieri. Il chiarore della luna filtrava attraverso il fogliame, creando ingannevoli giochi di luce che lo confondevano quasi come i bianchi fantasmi nati dalla nebbia. Era tutto un intersecarsi di viottoli, alcuni senza uscita, che formavano un tragitto bizzarro e inestricabile.
Finalmente, dopo molti giri tortuosi, il giovane giunse in un’ampia radura. Si arrestò immediatamente, riparandosi dietro un albero: una fanciulla dai lunghissimi capelli color della luna stava danzando al centro del prato, tenendo stretto a sé un enorme mazzo di fiori. Ella ballava leggera, percorrendo un cerchio immaginario, e ad ogni passo di danza lasciava cadere un fiore: pallide corolle d’esperide e lievi infiorescenze d’aquilegia rosata andavano mescolandosi a timidi non-ti scordar-di- me bianchi e azzurri e a delicate ombrelle di mirride odorosa… Elianto seguiva affascinato i volteggi di quella figura evanescente…
“Bella figlia della Luna, chi sei mai? – mormorava. – Deliziosa figlia della Luna, che voli sul vento, lasciandoti trasportare dagli echi delle ore… Malinconica figlia della Luna, dimmi chi sei!”
“Tu la chiami figlia della Luna e neanche immagini chi ella sia… ” Quelle parole inaspettate fecero sobbalzare il giovane che, dopo un attimo di smarrimento, scorse un folletto dei boschi che si stava dondolando sul lembo frangiato d’una foglia di felce. “Già da molto tempo conosco la pallida fanciulla che ti ha incantato. E’ l’amica delle nostre notti argentate e la sua delicata presenza ci rende felici… finché i fantasmi dell’alba non vengono a chiamarla e allora lei, povera Delfina, deve andarsene!”
“Come l’hai chiamata? Ma allora lei è… ” gridò Elianto, che fece per correre dalla fanciulla.
“Fermati! Non vedi che così la spaventi? – lo rimproverò il folletto. – Ella è sotto l’incantesimo di Alberico, che la tiene prigioniera”. E gli raccontò tutta la storia della bella Delfina, rinchiusa nel grande platano a causa del rancore dell’antico signore della foresta.
“Forse un modo c’è per salvarla… Vieni con me, presto, perché tra un po’ Alberico suonerà l’arpa!” Con queste parole il folletto condusse il giovane in un piccolo prato poco distante. Un’infinità di minuscole pratoline si apriva alla luce della luna; come tanti piccoli occhi timidi schiudevano le iridi dorate, sbattendo le palpebre bianche frangiate di rosa. In breve tempo raccolsero parecchie margherite, che il folletto intrecciò abilmente a formare una collana che diede ad Elianto.
” Corri alla radura e infilala al collo di Delfina… vedrai che l’incantesimo svanirà!”
Con il cuore che galoppava, il giovane raggiunse il piccolo spiazzo in mezzo agli alberi. Delfina era ancora lì, immobile tra i fiori, e si guardava attorno smarrita come se qualcosa l’avesse destata all’improvviso da un sonno profondo. Elianto la prese per mano, come se fosse una bambina. Non si stancava di guardarla e di mormorare il suo nome. “Delfina… Delfina…” faceva eco il vento.
Ad un tratto una melodia d’arpa si propagò nell’aria. Elianto vide la fanciulla trasalire e il suo viso farsi sempre più pallido, quasi divorato dagli occhi sempre più profondi e tenebrosi: chiusa in un mondo inaccessibile, ella percepiva soltanto il richiamo di quelle note. Improvvisamente si scostò da lui e, rigida e determinata cominciò ad avviarsi tra gli alberi. Solo in quel momento il giovane si ricordò della collana di margherite…
Fuori di sé dalla disperazione, si buttò all’inseguimento di Delfina. Ma nonostante tenesse un’andatura sostenuta, non riusciva in alcun modo a raggiungerla: provò ad accelerare e poi a correre, ma la fanciulla era sempre un passo avanti a lui. Poteva vederne le spalle sottili e il manto lucido dei capelli e sentire il respiro affrettato di lei e il fruscio del lungo abito bianco. A tratti sembrava svanire e allora il giovane allungava il passo, finché non tornava a vedere la scia luminosa dei veli che l’avvolgevano.
Finalmente ella sembrò rallentare. Erano giunti di fronte ad un platano secolare, da cui proveniva il suono malioso dell’arpa. Una porticina si stava aprendo lentamente alla base del tronco… Con un ultimo sforzo disperato, Elianto lanciò la collana di fiori sul capo di Delfina.
Ella rimase immobile sulla soglia dell’albero, come se fosse incerta se proseguire o tornare indietro. Poi pian piano si voltò e vide il giovane cavaliere che le sorrideva.
“Chi sei?” mormorò ancora confusa.
“Mi chiamo Elianto” disse e cominciò a spiegarle come fosse riuscito a salvarla. Mentre erano così intenti a parlare, un grido terribile lacerò l’aria e l’arpa smise di suonare. Spaventata, Delfina si strinse al giovane, temendo la vendetta di Alberico. Ma non accadde nulla; videro solo che l’usciolo si richiudeva silenziosamente, per non riaprirsi più.
Ormai l’oscurità della notte si stava stemperando nel chiarore lattiginoso del nuovo giorno.
“Presto, corriamo ad annunciare il tuo ritorno!” disse Elianto, prendendola per mano. E insieme s’incamminarono verso la grande casa che si stava svegliando.
Autore Anna Maccagni, Firenze. Illustrazioni di Giovanni Spiniello.
Ho letto la favola tutta di un fiato come usiamo dire quando si legge qualcosa che ti piace…Il chiodo arrugginito,segno dei nostri comportamenti sbagliati, e poi la vita dell’essere vivente Pianta con l’accenno dell’infaticabile “circuito” della linfa o forse è meglio dire della linfe? Il dolore del vecchio omino grinzoso che si trasforma in furia rabbiosa ,rabbia che spinge alla vendetta per “far capire”…Tutte le favole terminano con la vittoria del BENE… In questa favola ,purtroppo, non tutto finisce bene..La nostra terra,i boschi sono stati talmente “offesi” dalla stupidità dell’uomo che neanche una favola riuscirà a ridare il BENE PREZIOSO ormai perso….
UNICO NEO di questa bellissima favola..
Brava Anna
Sensibilità è spesso sinonimo di sofferenza, ma dobbiamo farla diventare costruttiva, questa consapevolezza. Grazie Raffaella!